Lavoro, la grande fuga dall'Italia investe Concorezzo e la Brianza

b_450_500_16777215_00_images_alcatel.jpegConcorezzo. tratto da repubblica.it. Da British Gas a Ikea, la grande fuga. di ETTORE LIVINI. Parola d’ordine: non passa lo straniero. L’Italia Spa una macchina che viaggia da tempo con il motore ingolfato a forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia è riuscita nel miracolo: far scappare le imprese straniere, e i loro soldi di cui avremmo bisogno come il pane, dal nostro paese. La statistica storica, di suo, è già poco incoraggiante: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania.

La cronaca recente però ancora più impietosa: British Gas, dopo undici anni di slalom tra permessi negati, arresti per tangenti e polemiche ambientali, ha rinunciato la scorsa settimana al progetto per la costruzione di un rigassificatore a Brindisi, un affare da 800 milioni in grado di creare mille posti di lavoro in una provincia dove il tasso di disoccupazione viaggia tra il 25 e il 30%. Il colosso danese Maersk ha appena salpato l’ancora dai moli di Gioia Tauro (dove rappresentava il 25% del traffico merci) spostando le sue navi e i suoi soldi verso i porti di Malta e Spagna, più efficienti e meglio collegati con il resto d’Europa. Lasciando come ricordo nella città calabrese 500 esuberi. L’Ikea è riuscita in sei anni (e per il rotto della cuffia!) a mandare in porto un soffertissimo investimento da 70 milioni in Toscana. Ma ora si è vista bloccare di nuovo un altro insediamento commerciale dalla burocrazia in Veneto.
Risultato: nel 2011 gli investimenti diretti di aziende straniere in Italia sono diminuiti del 53%. Certo, la recessione è uguale per tutti e anche nel resto del continente ci sono più spine che rose. La media Ue però è un 7% che noi ci sogniamo. «Guardi quello che è successo a Brindisi dice Giuseppe Recchi, presidente dell’Eni e del Comitato investitori esteri di Confindustria dopo 11 anni di braccio di ferro sembrava che l’operazione fosse arrivata a un passo dal via libera. Mancava solo quello della Conferenza di Servizi. Peccato che nessuno si sia sentito in dovere di convocarla in 600 giorni». «A tutto c’è un limite», ha detto Luca Manzella, amministratore delegato del gruppo inglese. Che a quel punto ha messo in mobilità le venti persone già assunte per il progetto, ha messo una pietra sui 250 milioni di euro già spesi per il rigassificatore fantasma e ha annunciato il suo addio all’Italia.
Ogni impianto ha la sua storia. Ogni progetto il suo curriculum di astruserie burocratiche, di rimpalli di responsabilità, di tavoli mai convocati. Ma il bilancio finale è sempre lo stesso: il rigassificatore di Trieste (500 milioni di investimenti previsti dalla spagnola Union Fenosa) è al palo. Quello di Livorno (600 milioni stanziati dalla Solvay) invece pure. Stesso discorso per gli 800 milioni pronti in Sicilia per quello di Porto Empedocle e per il 350 della Erg congelati a Rivara. In Italia, calcola l’Osservatorio Nimby Forum, ci sono 331 impianti contestati e bloccati da anni. Un biglietto da visita non proprio edificante che spiega da solo perché le grandi multinazionali, da qualche anno a questa parte, snobbino in modo preventivo il Belpaese. 
Nessuno, naturalmente, si stupisce. Una volta per spiegare il fenomeno del disamore dei colossi stranieri si citava come un mantra il cronico peso del costo del lavoro in Italia. Oggi la regola non vale più. «Le spese per la manodopera sono ormai un problema relativamente marginale racconta Recchi, che da ex numero uno della General Electric in Italia sa bene cosa serve per convincere gli americani a spendere soldi qui da noi Quando una multinazionale deve decidere dove investire valuta altre priorità: conta il tasso di crescita del paese e poi la capacità del singolo sistema nazionale a convincere le imprese dei vantaggi a mettere i propri soldi lì». Come? «Garantendo omogeneità normativa e la certezza sui tempi e le procedure».
Oggi, i fatti parlano da soli, siamo lontani mille miglia da questo obiettivo. L’osservatorio del Nimby Forum ha calcolato che nella penisola ci sono ben 331 impianti arenati per problemi legali e per i no di comitati ed enti locali (nel 26,7% dei casi a fermare i lavoro è l’interdizione politica). Con i sindacati vista la crisi che in una sorta di nemesi storica sono diventati i maggiori sostenitori dell’avvio dei lavori per la loro costruzione.
L’Italia così è scesa nel 2012 dall’83esimo all’87esimo posto nella classifica Doing Business stilata dalla Banca Mondiale, la pagella sulla "accoglienza" industriale di un singolo paese. Siamo dietro allo Zambia, all’Albania e alla Mongolia. Colpa di una giustizia civile che ci mette 1.200 giorni in media (quando ci riesce) a dirimere una controversia, il quadruplo dei tribunali francesi. Dei tempi lunghissimi per avviare un’impresa e dei costi dell’elettricità. E la morale non è solo l’assenza di nuovi investimenti stranieri, ma anche il fuggi fuggi di quelli che ci sono già. 
I ritardi della banda larga tricolore hanno convinto Alcatel a mollare gli stabilimenti di Concorezzo, due passi da Milano. Nokia e Motorola, che avevano due centri di ricerca all’avanguardia in Piemonte e Lombardia, hanno levato le tende trasferendosi armi e bagagli negli Stati Uniti. Dopo avere venduto agli stranieri quasi tutte le sue migliori aziende farmaceutiche, l’Italia ha visto emigrare uno ad uno tutti i suoi centri di ricerca (di proprietà estera) nel settore. Hanno chiuso i battenti di buona parte delle loro attività tricolori la GlaxoSmithkline a Verona, AstraZeneca, Pfizer, Sanofi, Wyeth. Decisioni prese in parte perché il baricentro del mondo si sta spostando verso i paesi emergenti, ma anche perché qui da noi fare business non è mai facile. Un peccato perché le multinazionali straniere presenti nella penisola investono in media in ricerca e sviluppo il 7% del loro fatturato. Ben più dell’1,5% dei loro concorrenti con carta d’identità italiana.
Fatica l’industria, ma un bel po’ di difficoltà ce l’hanno pure i grandi colossi finanziari, che pure sono riusciti a mettere basi un po’ più solide nel nostro paese. «È vero, qualche risultato l’abbiamo ottenuto ammette Guido Rosa, numero uno dell’Associazione Italiana Banche Estere (Aibe) Ma lei non sa come spesso ci si senta impotenti. Non sto a dirle quante volte sono stato nella Agenzia delle Entrate per cercare di far chiarezza sul tema dei fondi di rotazione senza alcun successo». E non è l’unico capitolo delicato. 
«Prendiamo le difficoltà a far valere i propri diritti sui crediti d’imposta continua il presidente dell’Aibe Conosco un fondo del Dubai che dopo aver acquistato una piccola azienda in Italia ha deciso di sospendere gli investimenti nel nostro paese proprio per questo motivo. E si figuri che la Associazione Banche Estere è dovuta intervenire per aiutare il direttore generale di un grande istituto straniero a sbloccare il rilascio di alcuni banalissimi documenti che gli servivano per lavorare in Italia!».
Tutti questi lacciuoli e il loro effetto deterrente sugli investitori esteri sono alla resa dei conti un boomerang per l’economia italiana. Gli investimenti pubblici sono fermi da anni (anzi, nel 2012 scenderanno a 35 miliardi dai 42 dell’anno prima), le imprese nazionali faticano a creare occupazione e tendono pure loro a delocalizzare. Un panorama desolante in cui la fuga degli stranieri è solo la ciliegina sulla torta. Che fare? «Servirebbe una singola realtà in grado di consultare tutte le parti interessate a un progetto in tempi brevi, coordinata magari dal ministero per lo Sviluppo suggerisce Recchi Un tavolo unico in cui si mettono a fattor comune dubbi, richieste e contestazioni. Dove si possa modificare il progetto o anche decidere di non avviarlo. Ma che dia la certezza, una volta chiusa la fase decisionale, di non aver più sorprese».
Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi. Il Comitato investitori esteri di Confindustria ha già presentato le sue proposte al governo. «E oggi sono un po’ più ottimista sulla loro realizzazione», ammette il presidente dell’Eni. L’Italia vista la direzione che ha preso il Pil e gli ultimi addii di British Gas & C. ne avrebbe davvero bisogno.